PHUBBING. UNA NUOVA ABITUDINE DA RIEDUCARE

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Non esiste più il tempo dell’attesa. Quell’entità spazio-temporale che distanza un evento dalla sua reazione, che ci mette nella condizione di fremere, dubitare, preoccuparci, sperare in una risposta che richiede il tempo necessario per essere elaborata, valutata, ripensata, digerita, comunicata. È il tempo del “tutto e subito”. E se le nostre aspettative sono disattese perché la risposta tarda ad arrivare, o è difficilmente decodificabile perché criptata da poche parole spesso abbreviate o delegate ad emoticon che dovrebbero (e il condizionale è d’obbligo) restituirci emozioni e stati d’animo, la delusione è dietro l’angolo.

Eppure affidiamo al nostro cellulare il compito di intrattenerci. Una volta nella sala d’attesa del medico si sfogliavano le riviste, oggi per “non perdere tempo” messaggiamo la mamma che non chiamiamo da un paio di giorni, acquistiamo la nuova stampante su Amazon o diamo una sbirciatina alla vita degli altri così come appare su Instagram. Facciamo portineria. 

Le conseguenze dell’iperconnessione

Uno studio australiano ha valutato che guardiamo il cellulare più di 800 volte al giorno, ma forse questa stima pecca per difetto.

Le conseguenze di questo atteggiamento sono fisiche, psicologiche e sociali

La postura con il collo proteso e le spalle curve ci regala problemi muscolo-scheletrici, l’esposizione alla retroilluminazione dello schermo abbaglia il nostro sistema visivo, costretto a miopizzare per mettere a fuoco caratteri, icone, link e Q-code. Navigare il web o vagabondare tra i social media fino a sera tardi incide negativamente sulla produzione di melatonina e altera il ritmo sonno-veglia, il cellulare ci distrae alla guida dell’auto mettendo a rischio la nostra incolumità e quella degli altri. Ma soprattutto rischia di toglierci dalla vita vera per scaraventarci in una pseudo-realtà. E di toglierci il gusto della presenza dell’altro, la bellezza dello scambio visivo, la possibilità di “sentire” prima ancora che di domandarci cosa proviamo di fronte ad un altro essere umano, ai suoi comportamenti, al suono della sua voce. Ci precludiamo la possibilità di annoiarci, dimenticando che solo dal vuoto nascono intuizioni e creatività: un vuoto pieno di senso e che permette di ascoltare la nostra parte più profonda.

Un tempo non occupato non è previsto, la noia viene fuggita come la peste. Se questa fa capolino a tavola con un gruppo di amici, alla cena di Natale con i parenti, o in visita agli zii accompagnati dai genitori pare particolarmente penoso stare nella frustrazione che questo comporta, ma dobbiamo immediatamente darci sollievo alla ricerca di qualcosa che attragga finalmente, nuovamente la nostra attenzione.

Questa tendenza, quant’anche considerata deprecabile da ognuno di noi, ci riguarda tutti incondizionatamente.

Ma quale realtà?

La rete ci regalato la possibilità di intravedere altri luoghi ed osservare altre realtà. Il verbo intra-vedere (vedere attraverso) è quanto mai opportuno se consideriamo che lo facciamo attraverso uno schermo e che dobbiamo considerare la soggettività (il punto di vista) di chi ha confezionato il materiale che stiamo visionando.

I social media ci consentono di osservare ciò che fanno gli altri e di contattarli, anche se non necessariamente di entrare in contatto.

Entrambi quindi non possono che essere guardati positivamente, come una possibilità in più che ci viene fornita per sentirci parte di un contesto più grande, che esula dai confini del nostro quotidiano e prescinde dagli aspetti spazio-temporali.

L’aspetto da monitorare, come possibile criticità, riguarda la possibilità che questo richiamo verso “il fuori”, ci impedisca di dedicare attenzione a ciò che avviene “dentro”, dentro di noi, e dentro alle relazioni reali che appartengono alla nostra vita di tutti i giorni.

La vita è altrove 

L’attenzione piena al contesto viene meno quindi dal richiamo che il digitale e l’iperconnessione esercita su di noi.

L’esperienza clinica come psicoterapeuta mi mostra come proprio coloro che più sono avvezzi all’uso di questi mezzi, gli adolescenti soprannominati “nativi digitali”, in realtà sono proprio quelli che lamentano negli adulti il “problema fondamentale” che gli adulti ravvisano in loro. È frequente infatti che i giovani riportino in seduta la disattenzione che avvertono nei loro confronti da parte dei genitori che sono sempre al telefono, distratti da un “fuori” che li obbliga a procrastinare, se non a rinunciare, a quell’ascolto che struttura le relazioni e ci restituisce la bella sensazione di essere visti e tenuti in considerazione.

L’incapacità di spegnere il cellulare, o quanto meno di relegarlo alla funzione che dovrebbe avere, fa sì che gli stessi adolescenti non siano più disponibili per i fratelli minori, per i quali costituivano un supporto sociale insostituibile per condividere le piccole grandi difficoltà relazionali con i genitori o per ottenere un aiuto nello svolgimento dei compiti,  momenti di condivisione tra simili che rafforzano il legame fraterno.

La pluripresenza

Se è vero che adolescenti oggi sono sempre sul cellulare dal quale con più difficoltà vengono distratti per spendersi in situazioni reali, non possiamo negare che questa tendenza riguarda tutti. 

Chi non ha partecipato ad una riunione di lavoro o a un momento di formazione durante i quali non ha mandato un messaggio con il cellulare? Siamo quindi presenti in più contesti simultaneamente e non tolleriamo la frustrazione di rimandare, siamo nell’impossibilità di attendere.

Una questione di educazione

È importante dunque non demonizzare le nuove tecnologie digitali quanto darci l’opportunità di riflettere e di condividere un pensiero che ritiene fondamentale di fronte alle innovazioni e ai cambiamenti sociali che portano a nuove abitudini  anche mettere in atto nuovi comportamenti attraverso una nuova educazione

Essere pienamente consapevoli del senso di esclusione che genera osservare una nostra amica o il nostro fidanzato assorbito dal cellulare invece che dalla nostra persona e dai nostri pensieri, ci permette di pensare ad un’educazione sentimentale che tenga conto dei cambiamenti sociali ma non li subisca e che colga il significato di alcuni valori imprescindibili nella relazione che sono messi a repentaglio dalla distrazione cui i nuovi mezzi ci espongono.

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